RAFFAELE DI MATTEO
Diretto discendente del celebre pittore cilentano del seicento, Paolo di Matteo, noto come Paoluccio della Madonnina, dopo gli studi artistici, realizzò mostre nelle più importanti capitali straniere e fu nominato membro a vita del Centro Divulgazione Arte e Poesia, con l'assegnazione di numerosi, importanti trofei. Di Matteo ottenne le recensioni di noti critici su giornali, riviste e cataloghi d'arte, fra cui l'Enciclopedia Mondiale Artisti Contemporanei. Le sue opere si trovano in musei e in numerose collezioni pubbliche e private in Italia, Inghilterra, Francia e Stati Uniti d'America. L'arte di questo pittore, che accarezza la tela con la magia del colore e scrive versi che parlano all'anima, esprime il suo picco massimo nella realizzazione delle cento tavole dedicate alla Divina Commedia e al sommo poeta Dante
Luciana Mauro, giornalista e scrittrice
Troviamo, nelle sue opere, profondi slanci di umanità e spiritualità, che affiorano dalla scansione narrativa con la pregnanza dei nessi morali che legano gli eventi descritti ai loro messaggi. E soprattutto vi troviamo la vibrante trepidazione di chi vuole suggerirci una misura vitale d'esistenza, spaziando dal dramma dello smarrimento umano alla dolcezza degli affetti domestici, dalla celebrazione della vita semplice alla contemplazione della natura, in una ricerca di complesse e suggestive armonie cromatiche, lucidamente amalgamate nella equilibrata strutturazione dei segni.
Salvatore Perdicaro
Interpretazione pittorica e figurativa della Divina Commedia nell’opera di Raffaele Di Matteo
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​La monumentale opera pittorico-illustrativa di Raffaele Di Matteo inerente i cento canti della Divina Commedia dantesca, si pone nella complessa, ardita ricerca di artisti che hanno inteso vestire d’immagini figurative le terzine del Sommo. Raffaele Di Matteo procede in un’analisi minuziosa ed appassionata nella quale lo studio e l’ammirazione per la versione incisa, epica e drammatica, del francese Gustave Doré ha una pregnanza notevole, oltre ad annoverare ispirazioni specifiche dall’Ottocento romantico che ha ornato di potenti slanci, fantasia iconografica, impeti del sublime e studio dell’abisso umano, narrazioni antiche e moderne. L’artista indaga il ritratto di Dante attraverso un’impostazione tradizionale, memore degli studi di Henry James Holiday ove l’autore è solennemente assiso con la “Vita Nova” tra le mani (1875) e quelli del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti che ama raffigurarlo nel timore dell’incontro con l’amata sul ponte di Santa Trinità (1883) nella bella figura avvolta dall’abito giada e vermiglio. Affrontare l’illustrazione della Commedia ha richiesto impegno e tenacia, oltre che una preparazione letteraria e storica sugli esempi illustri che hanno preceduto Raffaele Di Matteo, dunque come Crescenzo Onofri e Filippo Napoletano, presenti agli Uffizi con opere seicentesche nelle quali Dante e Virgilio si addentrano nell’oscurità dell’Inferno tra fumi scarlatti, atmosfere livide e pesanti, ombre tanto impalpabili quanto minacciose, ostacolati e aiutati da creature mostruose quali Caronte e Gerione. Riguardo la rappresentazione di quest’ultime, Di Matteo interpreta la disperazione e l’abbandono avvilito ed infelice delle anime sul demoniaco legno pesantemente affiorante dall’Acheronte, dall’olio di Perrin (1847), mentre lo sforzo della presa, l’abbraccio con Virgilio e il timore del periglioso volo sul dorso dell’orrido gigante alato, è vicino al pathos trasfigurato da Roberto Bompiani nel 1893, calibrato tra svolazzanti lembi bianchi e carminio. La commozione derivante dalla vicenda di Paolo e Francesca, descritta nel V canto, già in Doré rivestiva più incisioni, similmente nell’artista vi è l’interesse nel raccontare il bacio, dolce e fatale, nato dalla lettura del galeotto libro, come fu per il noto olio su tela di Ingres (1819), ma l’interpretazione della tempesta infernale, dell’ardore mai pago e del dolore infinito degli amanti, nasce dallo studio di opere come quelle di Giuseppe Frascheri (1846) oggi al Gam, di Umberto Boccioni (1908) e Gaetano Previati (1912) che tra brezze delicate e corpi confusi per sempre in abbracci di fuoco, ritraggono i giovani avvinti e vinti dal desiderio in un volo perpetuo e dannato. Lasciando il mare di vento dei lussuriosi, la toccante trasposizione di Farinata degli Uberti, che si erge dalla cintola in su per parlare con Dante, noncurante della supplizio infuocato al quale è sottoposto, è definito dall’artista in modo eroico, attinente ai celebri versi “com’avesse l’Inferno a gran dispitto”: come fu per Carlo Fontana nella sua marmorea e solenne effige dell’illustre ghibellino (1901) e nelle tele di Camille Boiry e Silvio Bicchi d’inizio Novecento, il personaggio è animato da un carisma (pre)potente che induce la maggior parte degli illustratori, compreso Di Matteo, a descriverlo in una visione vigorosa, con un impatto possente sull’osservatore, utilizzando il nero confuso al rosso vivo e all’oro brillante. Ancor più drammatico delle celebre scena del conte Ugolino che si accanisce sul cranio dell’arcivescovo Ruggieri nella desolazione della ghiaccia creata dal movimento perpetuo delle ali di Satana, le scene della morte degl’innocenti figlioli e dei giovanissimi nipoti del Conte, rinchiusi con lui nella Torre della Fame, sicuramente riempiono l’estro dei pittori, dalle tele bellissime e intense di Giuseppe Diotti, 1836, a quelle, presaghe e penetranti di Antonio Gualdi (1838), così anche Di Matteo riserva più illustrazioni a questa narrazione, ove nulla poté l’amore paterno e l’angoscia dell’ineluttabilità, mista all’infinita tenerezza, sono irrimediabilmente soverchiate dall’efferatezza e dalla crudeltà dell’uomo. Ma nell’abisso del male giace il trino Lucifero, specchio degenerato del Padre, che l’artista descrive intrappolato con enormi ali membranate, antico ricordo delle sei, nobilissime un tempo, che ebbe da Serafino: dopo la fatale perdita della Grazia, truce e torvo, è impegnato a divorar traditori come anch’egli fu. Lontano, dunque, dalle rappresentazioni iconiche di Franz von Stuck, 1889, ma simile nell’idea d’infinita solitudine, isolamento e abbandono del signore degl’angeli ribelli. Il viaggio nel Purgatorio si arricchisce di una sottile speranza, di una gioia non dichiarata ma presente, ed ecco che nelle immagini di Di Matteo bellissimo appare l’Angelo nocchiero, veloce e leggero come quello di Domenico Morelli nell’olio del 1845, oggi alla Prefettura di Napoli, la luce diventa un sentiero nel quale le anime, come la delicata Pia dei Tolomei, irradiano sentimenti di pietà e compassione per le storie commoventi e, sovente, ingiuste che le hanno colpite. Nel Purgatorio è, però, l’incontro con la misteriosa Matelda che l’artista rende in maniera quasi incorporea mentre sovrasta l’acqua della verità nella quale è immerso Dante: fluttuante sulle tacite onde del Letè e dell’Eunoè o velata di magica eburnea beltà, recante fiori e virgulti in seno, come nella versione ad olio di Albert Maignan (1881), è antica e incorrotta condizione di perfezione e felicità prima della caduta. Se la solennità del Paradiso diviene tripudio di baluginii e di beati diafani e luminosi con Piccarda Donati che, stella fulgente, anche nel noto marmo di Giovanni Bastianini (1855), è figura pregnante nell’illustrazione di Raffaele Di
Matteo, egli, si sofferma con cura, passione e grazia nella descrizione di quest’ultimo regno dedicato al divino e alla purezza. L’artista, dunque, si pone nella scia degl’illustri che hanno affrontato un’impresa imponente come quella di dare forma e colore al viaggio dantesco, tanto fosco quanto luminoso, tanto duro quanto gratificante. Così, si passa dai disegni di Sandro Botticelli, puntuali nella resa del dettaglio su preziosa pergamena a Federico Zuccari e Giovanni Stradano che nel Cinquecento, il primo con forte ascendenza manierista, il secondo, allievo di Vasari, elaborano, disegni, bozze preparatorie e dipinti nei quali la cultura del tempo e l’interesse per la pittura fiamminga, diventano elemento importante di traduzione visiva. Il Settecento, attraverso l’arte visionaria e preromantica di Heinrich Fussli, innamorato del mistero dell’inconscio, vede congeniali le analisi più cupe dell’Inferno, ma sarà William Blake ad ammantare, ad inizio Ottocento, di genialità, innovazione e colore i cento canti della Divina Commedia, attraverso uno stile immaginario che ricerca la resa del mistico e del sovrannaturale nella sua arcana essenza. Il Novecento è dominato da Salvador Dalì, dal suo stile dissacrante, imprevedibile, ossessivo, onirico riversato anche nella lettura dipinta della Commedia che diviene archetipo dell’esperienza umana. Nel 1970 sarà, invece, ultimata l’opera d’interpretazione del viaggio nei tre regni dell’oltre, da Renato Guttuso, che non presenterà mai la figura dantesca, ma solo le visioni incontrate dagli occhi del poeta fiorentino.
Tutti gli artisti, anche e soprattutto Raffaele Di Matteo, hanno commentato le terzine alla luce di una personale poetica creativa, attraverso immagini che dialogano col testo e, liricamente, il trascendente è divenuto tangibile, lo spirituale intellegibile.
Antonella Nigro, Storico e critico d'Arte